Breve storia di Martina Franca

Nell’attuale territorio di Martina Franca numerosi reperti archeologici attestano significative tracce della presenza antropica già nel periodo preistorico, quando piccole comunità di cacciatori e/o di pastori s’insediarono nelle numerosissime cavità carsiche e, in particolare, in quelle ubicate sul limite meridionale del territorio comunale: Gravina del Vuolo, Gravina delle Voccole, Grotta della Breccia, Grotta Parco della Vigna, Grotta di Monte Fellone.

Allo stato attuale delle ricerche lo studio della frequentazione antropica del territorio è basato, essenzialmente, sull’analisi di fonti storiche e su ricognizioni di superficie, effettuate da studiosi locali e no, che permettono d’identificare una distribuzione di attestazioni dall’VIII secolo a.C. al X d.C. in piccoli insediamenti sparsi nell’agro.

L’attuale area di Masseria Badessa Vecchia, in antico Sisignano, è l’unica zona che è stata interessata da saggi archeologici stratigrafici, condotti dalla Soprintendenza Archeologica di Taranto alla fine del secolo scorso.

Tali indagini hanno attestato una frequentazione continua del sito dall’Età del Bronzo sino all’Alto Medioevo, ossia la presenza di un villaggio indigeno fortificato, forse circondato da una doppia cinta di mura, all’estremo limite settentrionale della chora tarantina, in posizione rilevante rispetto all’ipotetico tracciato della via istmica che portava da Taranto a Egnazia.

L’antica frequentazione antropica del territorio di Martina Franca è confermata, inoltre, dall’esistenza di una grotta cultuale detta di Santa Maria d’Itria, officiata da monaci basiliani di rito greco dipendenti dal Monastero di San Nicola di Càsole presso Otranto, fondato nel 1099.

In Età Moderna da questa grancia, poi Convento e Chiesa di Santa Maria d’Itria dei Frati Cappuccini, è derivata la denominazione della Valle d’Itria, ossia la vallecola carsica che s’estende nel territorio di confine degli attuali comuni di Martina Franca, di Cisternino e di Locorotondo.

Il centro urbano di Martina Franca si erge in posizione dominante su detta valle, a 431 metri sul livello del mare, dalla quale si può ammirare la terra rossa della Murgia dei Trulli, punteggiata da decine di migliaia di trulli, da sontuose masserie di antica vocazione agro-silvo-pastorale e dal sinuoso e ordinato reticolo di muretti a secco.

Il documento più antico che attesta la presenza di un centro demico nel Medioevo, invece, è l’Instrumentum executionis mandati regii del 15 luglio 1260.

Nel rogito è rilevato, tra i numerosi toponimi di confine, il Castrum Martinae, verosimilmente un’istallazione militare, forse una torre con fortificazioni essenziali, giacente in territorio di Taranto, città fedele a Manfredi; il castrum insisteva su un’altura dominante la Valle d’Itria, ricadente quasi interamente in territorio di Monopoli.

L’Instrumentum executionis mandati regii, pubblicato per la prima volta nel 1979 dallo studioso di Castellana-Grotte Marco Lanera (1930-2002) e, poi, riproposto e commentato per quel che riguarda Martina dallo storico Giovanni Liuzzi nel 1990, costituisce un punto fermo per comprendere l’evoluzione insediativa, malgrado non pochi ricercatori tradizionalisti s’ostinino ancora a ignorare quest’essenziale documento.

Tale area doveva occupare una piccola porzione dell’attuale centro storico di Martina Franca, ossia i rioni Montedoro e Curdunnidde; quest’ultimo lemma, infatti, è la moderna denominazione dialettale castrum vetus, contrapposto al castrum novum, ossia il torrione eretto nel 1388 da Raimondello del Balzo Orsini (1399-1406), futuro principe di Taranto (1399-1406), poi abbattuto nel 1668 per far posto al Palazzo Ducale, il cui spiazzo antistante fino a qualche decennio fa era indicato come Sope u Castidde.

Il centro demico, dunque, esisteva e aveva già una propria autonomia amministrativa, ossia un organismo rappresentativo, l’Universitas civium, quando il 12 agosto 1310 il principe di Taranto Filippo I d’Angiò (1294-1331) emanò il privilegio con il quale riconobbe istituzionalmente nel proprio Stato feudale della Puglia centro-meridionale il Casale della Franca Martina, equidistante dall’Adriatico e dallo Ionio.

Il 15 agosto 1310, inoltre, Filippo d’Angiò emanò un altro privilegio, con il quale assicurò agli stessi abitanti che non sarebbero mai stati obbligati a pagare ai baglivi delle terre di Ostuni, di Mottola e di Massafra i diritti della fida per il pascolo e per abbeverare il loro bestiame nei territori demaniali di quelle città.

Qualche anno più tardi il casale si popolò di genti diverse, attratte dalla gratuità dei pascoli, situazione attestata da un’azione giudiziaria intentata nel 1315 dall’Università di Monopoli per l’abusiva occupazione del proprio territorio da parte dei martinesi.

Questo fenomeno indusse Filippo I d’Angiò a concedere agli abitanti di Martina un terzo e più importante privilegio, assegnando il 15 gennaio 1317 un territorio circolare intorno al centro urbano di due miglia circum circa (Km 3,7) ed esteso 4.278 ettari, detto distretto, che per un quarto venne sottratto al territorio di Monopoli e per il rimanente a quello di Ostuni e di Taranto.

Si trattò di una concessione estremamente importante, perché in età feudale davvero poche comunità di recente formazione ottennero un proprio territorio amministrativo.

Nell’area, concessa in allodio (proprietà privata), qualsiasi martinesi, residente nel Casale, veniva autorizzato a costruire abitazioni rurali, a piantare vigne, a realizzare orti (giardini), a scavare cisterne e a tracciare strade interpoderali, senza essere soggetti all’imposizione di tasse di natura feudale.

Un’ulteriore concessione, infine, venne accordata dal principe di Taranto Roberto d’Angiò (1343-1364) con privilegio del 15 aprile 1359, con il quale i martinesi ottennero un vastissimo territorio, sottratto ai demani di Taranto, di Monopoli, di Ostuni, di Mottola e di Ceglie, giuridicamente assegnato in piena e libera disponibilità al feudatario Pietro di Tocco (1352-1364) e a tutti i cittadini.

Il territorio di Martina, quindi, passò dai 43 chilometri quadrati del distretto a circa 450, anche se dopo poco tempo, venne decurtato e ridotto alle dimensioni attuali, circa 300 chilometri quadrati.

L’insediamento conservò il toponimo fino al 1374, anno in cui venne ricordato come terra di Martina, ossia un centro urbano delimitato da una cinta muraria con torri e con quattro porte, circondata da ampi fossati antemurali.

Per quasi cinque secoli la città venne sempre indicata come Martina in tutti i documenti che la riguardavano, compresi quelli dell’Università (Comune) e quelli dei vari signori che la tennero in feudo ma compiuta l’unità nazionale, con regio decreto del 14 febbraio 1864, il Comune di Martina fu autorizzato ad assumere la denominazione di Martina Franca per distinguerlo da un omonimo paese ligure, che venne per questo denominato Martina Olba e, poi, Urbe nel 1929.

Gli amministratori comunali postunitari adottarono surrettiziamente il predicato nominale Franca in ricordo delle esenzioni fiscali concesse dai dinasti angioini alla città.

Nella lingua del popolo, però, il toponimo ufficiale non ha mai avuto successo, tant’è che anche gli abitanti dei comuni limitrofi indicano il nostro esclusivamente come Martina.

A partire dalla metà del XV secolo ebbe inizio un processo di costante trasformazione del territorio, che, per certi versi, continua ancora oggi, anche se ha assunto tendenze diverse a seguito del mutare degli indirizzi economici.

Della città angioina-aragonese sopravvivono pochissime vestigia: il campanile romanico-gotico della Collegiata di San Martino, forse eretto su una medievale torre confinaria e capitozzata alla fine del Settecento; la navata destra della Chiesa di Sant’Antonio da Padova, originariamente dedicata a Santo Stefano, con tozze colonne dai capitelli ornati da protomi leonine e da foglie di acanto, nella quale alla fine degli anni Settanta del secolo scorso sono venuti alla luce affreschi e sinopie, databili ai primissimi anni del Cinquecento.

Il 3 gennaio 1507 Martina fu assegnata in feudo, per la prima volta con il titolo di ducato, a Petracone III Caracciolo (1507-1522), conte di Buccino, e i suoi discendenti l’ebbero come ducato ininterrottamente fino all’eversione della feudalità (1806).

A partire dalla seconda metà del XVII secolo la storia politica e sociale di Martina s’intreccia, dunque, con le vicende della famiglia dei Caracciolo del Leone, determinando, così, una trasformazione culturale e urbanistica: nel 1668, come s’è detto, Petracone V (1655-1704) fece radere al suolo il citato castello-torrione feudale, orami fatiscente, per erigervi il monumentale Palazzo Ducale.

L’imponente edificio è l’espressione tangibile del potere feudale sulla città, nonché esempio di un’architettura di gusto barocco-manierista, ancora legata a motivi tardo rinascimentali, presente in altri monumenti del centro storico: la Porta di Santa Maria, la Chiesa delle Agostiniane Eremitane, la Chiesa del Monte Purgatorio, la Chiesa di San Francesco da Paola e la Chiesa di San Francesco d’Assisi.

L’azione politica dei Caracciolo e la costruzione della dimora ducale avviò nei decenni successivi notevoli iniziative di trasformazioni socio-culturale che si manifestarono, anche, con la presenza di maestranze e di artigiani specializzati nella lavorazione della pietra, maestri della polvere bianca, impegnati nella realizzazione e nella decorazione di residenze religiose e civili di gusto rococò, tendenza che ebbe importanti riflessi artistici, anche, nella scultura, nella pittura e nelle arti minori.

Sobri ricami di pietra dai motivi geometrici, zoomorfi, vegetali e antropomorfi impreziosiscono le finestre, i portali, le architravi, degli edifici che caratterizzano il tessuto urbanistico della città settecentesca, percepibili sia nei palazzi signorili, che si dispongono soprattutto su Via Cavour e Via Mazzini, quanto nelle modeste abitazioni ovvero negli edifici civili (Torre Civica, Palazzo dell’Università, Porta di Santo Stefano) e religiosi (Collegiata di San Martino, Chiesa del Carmine, Chiesa di San Domenico).

Il centro storico è, quindi, l’espressione di una dimensione spazio-temporale miracolosamente intatta: un continuo e fantasioso intrico di viuzze, di vicoli, di ‘nghiostre, di ripide scale di pietra e di leziose porte e finestre, specchio del dinamismo e del pragmatismo socio-economico degli abitanti, i quali nel corso dei secoli hanno mutato il borgo medievale, poi, rinascimentale, per trasformarlo con leziosi decorativismi rococò nell’espressione più alta della cultura cittadina.

 

Fonti bibliografiche

D. BLASI, Martina e i principi angioini di Taranto, in W. TRONO, 1310-1359 - I primi anni di Martina angioina, Matelica, 2010, pp. 73-108

Riflessioni-Umanesimo della Pietra, Martina Franca, luglio 1978-2017

Umanesimo della Pietra – Città & Cittadini, Martina Franca, dicembre 1996-2017

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